Il padrone generoso

Il padrone generoso

«Cercate il Signore» ci invita la 1ª Lettura di oggi; nel Vangelo è detto, invece, che noi siamo i “cercati” dal Signore. Il problema dell’uomo è farsi trovare, per cui il padrone, Dio, deve uscire a tutte le ore.

La parabola di oggi racconta un fatto abituale in Palestina (e ancora in molti paesi del Sud Italia): un padrone va in piazza ad assumere alcuni braccianti per la vendemmia. Una scena normale, in apparenza. L’anormalità, semmai, sta nel padrone, che si ostina – fino alle cinque del pomeriggio! – a dare lavoro ai disoccupati. Torna in piazza per far lavorare anche solo un’ora i più disperati. Alla fine della giornata accade il fattaccio. Il padrone ha pattuito con i primi la paga di un denaro per la giornata di lavoro. Un buon prezzo, il giusto, ci dicono gli storici. Al momento della paga inizia a pagare gli ultimi, quelli che hanno lavorato solo un’ora e – sorpresa! – da loro un denaro. A quella vista, gli operai della prima ora gongolano e pensano: a noi darà di più. Ma, quand’è il loro turno, restano di sale; come pattuito anch’essi ricevono un denaro di paga. A questo punto tutti ci aspetteremmo che dicano al padrone: «Dacci di più!», come avevano pensato.

Invece, implicitamente, con la loro protesta chiedono che agli ultimi sia dato di meno. Non dicono ciò che pensano, non vogliono fare la figura dei taccagni: tanto era stato pattuito. Vogliono fare i giusti, mascherando la loro piccineria dietro un nobile sentimento e una questione di principio. Un denaro è considerato il salario minimo giornaliero per far vivere una famiglia palestinese ai tempi di Gesù. Dunque è come se i primi chiedessero la morte degli ultimi, facendo dar loro una paga inferiore alla sopravvivenza.

Dietro una questione di giustizia si nasconde, come spesso accade, una meschinità assoluta. La difesa di un privilegio.

Il padrone si urta, e fa bene. Lui è buono, non sciocco. È buono, e quindi giusto, e svela la malvagità nascosta dei primi operai. È sconcertato il padrone: il suo gesto – nobile, dignitoso, signorile – di far lavorare un’ora soltanto per mantenere qualche famiglia in più, senza fare elemosine, senza umiliare adulti volenterosi, è interpretato come una debolezza. Nessuno nota questa generosità, l’avidità prende il sopravvento.

Chiediamoci: il nostro vivere la chiesa è l’espiazione di qualche colpa o esperienza gioiosa di sentirci coinvolti nell’opera di Dio, che desidera far nuove tutte le cose?

Gli operai della prima ora, come i figli del Padre prodigo, non hanno colto con chi hanno a che fare. Hanno ridotto la loro fede a fatica e sudore e basta. Di più: guardano con sospetto gli altri, quasi concorrenti dei loro privilegi. Non è così per chi ha colto la luce del vangelo. Stupiti, abbagliati dalla bontà del padrone, gioiamo per la grazia di poter lavorare nella vigna, gioiamo per la possibilità che altri fratelli, anche all’ultimo, possano accogliere la grazia che ci ha trasformato.

La bontà di Dio contagi la nostra vita, in modo da rendere la nostra giornata lavorativa, sin d’ora, immagine di quella gioia che il Signore riverserà nei nostri cuori forgiati dalla fatica dell’amore.

Il nostro Dio, mite e umile di cuore, che per primo ha vissuto questa parabola dall’albero della croce accogliendo il buon ladrone, ci faccia uscire dalle ristrettezze di una fede “sindacale” per percepire, almeno un poco, quale braciere d’amore e di bontà è il suo cuore…